Nella cessione d’azienda è piuttosto frequente che l’acquirente paghi con prezzo dilazionato, utilizzando le entrate dell’azienda stessa.
Si pone così il problema di garantire il venditore: una formula è quella di affittare l’azienda con patto di futura vendita, defalcando dal prezzo le rate che sono state versate durante l’affitto.
Ma se non sono in gioco piccole somme, questo schema finisce semplicemente per spostare nel tempo il problema: esso ha un senso soltanto se l’esercizio dell’opzione di acquisto avviene senza dilazioni oppure richiede un termine piuttosto lungo dell’affitto.
Siccome le fideiussioni bancarie sono praticabili ma costose e i depositi di somme di denaro presso un professionista di fiducia presuppongono comunque la disponibilità delle somme, la prassi (quando non utilizza le cambiali; o anche in aggiunta alle medesime) si è indirizzata verso l’utilizzo dell’articolo 1523 del codice civile, ossia dell’apposizione della clausola di riserva di proprietà detta anche patto di riservato dominio.
Nel linguaggio comune (e del resto anche parzialmente in quello codicistico) è nota come vendita a rate ed era applicata in origine a televisori ed elettrodomestici: essa prevede che il trasferimento della proprietà avvenga soltanto quando il prezzo è stato interamente pagato. Il testo della norma così recita: “Nella vendita a a rate con riserva della proprietà il compratore acquista la proprietà della cosa col pagamento dell’ultima rata di prezzo, ma assume i rischi dal momento della consegna”.
Sotto il profilo giuridico, tra i vari inquadramenti proposti dalla dottrina, sembra preferibile quello che la considera non una condizione sospensiva o risolutiva né tanto meno la fonte di una doppia proprietà bensì una vendita obbligatoria: gli effetti reali traslativi sarebbero rinviati sino a quando non si sono esaurite le obbligazioni delle parti, la principale delle quali è ovviamente quella relativa al pagamento del prezzo.
Troppo ottimisticamente chi si affida alla riserva di proprietà crede di avere risolto tutti i problemi, incluso il pericolo che l’acquirente venda a un terzo prima di aver pagato.
I contratti di cessioni di azienda con riserva di proprietà sono soliti esplicitare un divieto di vendita a carico dell’acquirente: ma è chiaro che il divieto nulla aggiunge.
In ogni caso la vendita anticipata costituirebbe inadempimento, almeno se non è preceduta dal saldo del prezzo.
Ma la vera questione è se tale divieto sia opponibile o meno al terzo acquirente: se non lo è, in termini di sistema, non sarà certo la sua esplicitazione in atto a renderlo opponibile. Statisticamente, sino a poco tempo fa, era assai inusuale trovare trascritto un patto di riserva di proprietà nel Registro delle Imprese.
Era dunque difficile considerarlo opponibile ai terzi: l’articolo 1524 dichiara la riserva di proprietà opponibile ai terzi se risulta da atto scritto avente data certa, ma questo si riferisce ai beni mobili. Per i beni che sono soggetti a un regime legale di pubblicità la regola diventa la relativa trascrizione, tant’è che il secondo comma dell’articolo 1524 la prevede per i macchinari di un certo valore e il terzo comma per i beni mobili registrati.
Se dal sistema legale di pubblicità dell’azienda non si evinceva la riserva di proprietà, vuol dire che non era possibile opporla ai terzi. Tuttavia, la situazione è andata migliorando e con certe forzature del sistema informatico appare possibile (e forse a questo punto doveroso) fare in modo che l’esistenza della riserva risulti dalla visura camerale.
Ciononostante rimane dubbio che il Registro delle Imprese possa essere assimilato alla Conservatoria dei Registri Immobiliari e risolvere i conflitti tra più acquirenti. Il Consiglio Nazionale del Notariato, ad esempio, ha espresso parere nettamente contrario.
Cosa dire del patto con riserva di proprietà?
Possiamo declassare a terzo creditore l’acquirente dal cessionario che aveva comprato con riservato dominio? O non dobbiamo piuttosto farlo rientrare nella categoria di quei soggetti per i quali il Registro delle Imprese non risolve il conflitto? La verità è che la forzatura è consistita nella pretesa di far calzare un bene come l’azienda, con il suo valore volatile dato dalla gestione dinamica, alla formula della riserva di proprietà.
Va già bene che il Comune non sollevi problemi per la voltura dell’attività (visto che a rigore essa non è stata trasferita). Ma negli altri ambiti se l’acquirente con riserva di proprietà vende il bene compie il reato di appropriazione indebita.
Il titolare di un’azienda, tuttavia, vende i beni per definizione. Certo, possiamo distinguere tra le merci e i macchinari: ma se deve cambiare un macchinario avrà allora bisogno dell’autorizzazione del suo venditore? E se, invece, gli rimane solo l’avviamento e vende quello (una situazione che sarebbe ad esempio tipica del commercio ambulante), non è forse vero che viene meno anche il deterrente dell’appropriazione indebita, visto che la Corte di Cassazione con sentenza n. 33839 del 13 settembre 2011 ha escluso che questo reato si possa commettere “appropriandosi” di beni immateriali? E se la vediamo dal punto di vista del cessionario, non c’è uno sbilanciamento di garanzie a suo sfavore se si prevede (quasi inevitabilmente) un successivo atto di quietanza, con il rischio che il venditore tardi a firmarlo? Per non dire del fatto che sarebbe curioso vedere cosa succede nel caso che il cessionario abbia notevolmente incrementato l’avviamento dell’azienda, pur non potendo pagare le rate per problemi di liquidità.
Diremo che il venditore non solo si tiene le rate (come da articolo 1526) ma profitta anche dell’incremento di valore? Certo, il giudice “secondo le circostanze può ridurre l’indennità convenuta”: beato chi si accontenta… Insomma, la cessione con riserva di proprietà sembra destinata a introdurre più problemi di quanti ne risolve. Se ne ricava, quanto meno, la necessità di una regolamentazione contrattuale molto dettagliata, idonea a prevenite ogni patologia del rapporto, qualche anno-luce oltre l’articolo 1525 (per il quale “nonostante patto contrario, il mancato pagamento di una sola rata, che non superi l’ottava parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto, e il compratore conserva il beneficio del termine relativamente alle rate successive”), che a volte si ritrova come unica previsione extra rispetto a una normale cessione d’azienda. Quanto alla certezza che non ci siano precedenti riserve di proprietà (visto che la loro opponibilità è quanto meno in discussione), bisognerebbe fare affidamento su un controllo notarile dei titoli precedenti (non solo dell’ultimo). Si tratta di una condotta che probabilmente sarebbe meglio pattuire con il notaio, quale garanzia professionale. Dal punto di vista pratico, comunque, ciò che veramente interessa a chi vende un’azienda senza ricevere il prezzo è 1) di potersi intestare nuovamente l’azienda in caso di mancato pagamento dell’acquirente, anche senza la collaborazione di quest’ultimo 2) che l’azienda nel frattempo non venga ceduta. L’attenzione prestata nella prassi alla riserva di proprietà ha messo in secondo piano le possibilità alternative per assicurare entrambe le cose al venditore. Per la prima si tratta di strutturare una clausola adeguata e caratterizzata dall’individuazione preventiva dei mezzi di pagamento. Per la seconda il risultato si può ottenere con particolari negozi di alienazione a scopo di garanzia, particolarmente quando l’acquirente è una società.